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L’Erua Pazza dei Monti Lepini

Un giorno di pioggia, mentre il treno sfrecciava lungo i binari, sfiorando i prati verdi della Ciociaria, pensai: in quel fazzoletto di terra chissà quanta erba buona e genuina c’è! Incuriosita, appena scesi dal treno, cominciai a guardare dove mettevo i piedi, per vedere se riuscivo a individuare qualche piantina a forma di stella con tante foglioline frastagliate; mi accorsi che ce n’era una grande quantità dalle forme infinite e dalle numerose sfumature di verde.
La mente, allora, cominciò a tornare indietro nel tempo, quando da bambina accompagnavo mia madre per i prati a raccogliere la cicoria. Mi specchiavo nei ruscelletti d’acqua, dove di tanto in tanto guizzava qualche granchietto rosso. Non era possibile resistere a tanta freschezza, dovevo necessariamente assaggiare e bere quell’acqua tanto cristallina. Quando mia madre richiamava la mia attenzione, mi diceva: ” guarda e impara un giorno, in futuro, insegnerai a tua figlia a raccogliere quest’erba tanto buona”. E allora, trotterellando di qua e di là, le chiedevo il nome di quella o di questa altra pianta: la cassella, glio categlio, la rapesta, ecc. L’rua Pazza dei Monti Lepini Un giorno splendente e luminoso mi sedetti sulla parte più alta del prato e cominciai a pensare alle parole della mamma. Chissà, lontano nel tempo, quante mamme con le loro figlie avevano camminato su quei prati, raccogliendo le erbe per preparare il pranzo o la cena alla famiglia. Mi sembrava addirittura, di udire le urla e le risate di gioia di quelle bambine, che tanto piccole, erano già grandi. Mia zia Fiorina, mi racconta sempre, di quando a 10 anni portava la canestra con la colazione al padre, che era in campagna a lavorare la terra. Prima di ritornare a casa, riempiva la canestra con “l’erua pazza” e la portava alla mamma. L’aiutava anche a pulirla e a cucinarla nel callaro, posto nel camino. Si perde certamente, nella notte dei tempi, il tramandare di madre in figlia la conoscenza delle erbe spontanee commestibili, crude o cotte. Andare per i campi è sempre stato un compito tacitamente assegnato alle donne, che dovevano provvedere a sfamare la famiglia in tempi in cui era molto duro il vivere quotidiano. Oggi è facile, invece, accompagnare la mamma dal fruttivendolo e comprare il minestrone già pronto. Inoltre zia Fiorina mi racconta che in autunno accadeva un evento tanto atteso. Nei prati del Pantano nasceva una pianta simile alla cicoria, chiamata pisciacana. Essa era di un verde brillante, tanto liscia al tatto e con tante foglioline frastagliate. Veniva raccolta, pulita e bollita nell’acqua. Dopo la cottura la si metteva nell’acqua fredda per qualche minuto per togliervi l’amaro rimasto, poi se ne facevano tante palline ben strizzate e si riponevano in un luogo fresco, per essere poi ripassate in padella con l’olio, l’aglio e il peperoncino. Spinta dalla curiosità ho coinvolto la mia amica Giovanna, guida ambientale e appassionata di botanica, per conoscere più da vicino le piante del prato. Giovanna si è entusiasmata subito e ha iniziato insieme a me a chiedere le ricette più antiche alle nonne del paese.

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